Sergio Romano: l’ex Senatore e l’ex Cavaliere

Postuar në 13 Prill, 2014 03:32

Sul piano giudiziario il caso di Marcello Dell’Utri sembra avviato alla sua conclusione. Un uomo, condannato a sette anni da un tribunale del suo Paese per concorso esterno in associazione mafiosa, va all’estero «per ragioni di salute», senza chiedere il permesso ai magistrati, grazie a complicità che sembrano avvalorare la condanna. La polizia riesce ad arrestarlo nel giro di un paio di giorni. L’uomo sarà probabilmente costretto a rientrare in patria. Ma non è un cittadino qualsiasi. È stato per molti anni l’amico e il principale collaboratore della persona che ha già dato il suo nome a un ventennio della storia nazionale. Ha modellato un partito, ne ha scelto e formato i quadri, ha applicato con successo alle campagne politiche il linguaggio e le tecniche delle campagne pubblicitarie e degli annunci promozionali. È stato parlamentare della Repubblica.

Non è sorprendente quindi che la sua improvvisa scomparsa dall’Italia e il suo forzato ritorno in patria facciano discutere. Abbiamo letto e continueremo a leggere per parecchi giorni commenti indignati o comprensivi, a seconda della collocazione politica e delle simpatie o antipatie di chi scrive o manifesta pubblicamente le sue impressioni. In un Paese dove gran parte della classe politica finisce, prima o dopo, in una aula di tribunale, (l’ultimo caso è quello dei coniugi Mastella), la giustizia si è inevitabilmente politicizzata; e il passaggio di tanti magistrati alla vita politica, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha finito per rendere questa anomalia ancora più vistosa.

 

 

 

Ma il caso Dell’Utri è diverso e dovrebbe essere valutato, anche da chi crede nella sua innocenza, in un’altra prospettiva. Nel corso del processo, in uno Stato democratico, l’imputato ha il diritto di difendersi, contrattaccare e può essere umanamente compreso persino se sostiene di essere vittima di una giustizia ostile. Può fare, in altre parole, tutto ciò che Berlusconi e altri imputati eccellenti hanno fatto in questi anni. Ma la sentenza è un’altra cosa. Chi si batte nel corso del processo, anche con manovre dilatorie, dimostra di accettare, sia pure a malincuore, le regole del sistema. Chi sfugge alla sentenza, invece, accetta il sistema sino a quando ritiene di poterlo usare a suo favore e gli volta la spalle non appena constata di non esservi riuscito. La fuga, in questo caso, è un gesto eversivo. Se è consentito fare confronti tra personalità alquanto diverse, Dell’Utri non è il primo politico italiano che fugge all’estero nel corso di una vicenda giudiziaria. Giovanni Giolitti andò in Germania nel dicembre del 1894, quando gli fu detto che correva il rischio di essere arrestato per lo scandalo della Banca Romana, e rimase a Berlino per un mese e mezzo. Ma tornò in Italia non appena fu raggiunto da un mandato di comparizione del tribunale di Roma. Bettino Craxi lasciò l’Italia per Hammamet durante i processi di Mani pulite e commise un errore che il socialismo italiano non ha ancora smesso di pagare. Giolitti si difese in Parlamento e fu per quasi vent’anni il dominus della politica italiana. Craxi, anche per le sue cattive condizioni di salute, è divenuto irrilevante e ha trascinato con sé il Psi. Se Forza Italia non vuole subire la stessa sorte, soprattutto in un momento in cui l’immagine di Berlusconi si sta appannando, occorre che il suo leader e i suoi maggiori esponenti dicano sulla vicenda Dell’Utri una parola chiara. Devono semplicemente, senza distinzioni fumose e poco convincenti, disapprovare e condannare. 

 

Il Corriere della Sera

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